Una (difficile) vita da avvoltoio
Gli avvoltoi sono necrofagi obbligati, e ciò significa che la loro strategia alimentare è basata interamente o quasi sulla ricerca e sul consumo di animali già morti, e ovviamente questo stile di vita non è facile: dipendere dalla morte di qualcun altro non dev’essere affatto una bella cosa!
Nel corso di milioni di anni di evoluzione, le abitudini da necrofagi obbligati hanno provocato notevoli modifiche nell’aspetto di questi uccelli, rendendoli altamente specializzati nel nutrirsi di carcasse. Un becco grande e robusto è molto utile per lacerare le carcasse di grandi animali con uno spesso strato di pelle, e anche le zampe degli avvoltoi hanno subito una modifica anatomica: non presentano artigli lunghi e affilati come quelli delle aquile. Tale differenza, ci fa capire come questi animali non siano adatti a ghermire e trasportare le prede; le zampe degli avvoltoi, infatti, sono molto più utili per camminare sul terreno, e questo facilita i loro movimenti attorno alle carcasse durante il pasto. Gli avvoltoi, chi più chi meno, vantano le aperture alari e le portanze maggiori nel regno animale. Sono dei veleggiatori in grado di sfruttare le correnti termiche ascensionali per effettuare lunghi spostamenti in volo planato, senza battere mai le ali. Questa tecnica di volo è estremamente vantaggiosa per animali che, talvolta, devono compiere centinaia di chilometri in cerca di carcasse, e che così sono in grado di ridurre al minimo il dispendio energetico. E infine, in molte specie di avvoltoio, sono osservabili una testa e un lungo collo privi di piumaggio. Questo adattamento favorisce il loro lavoro da spazzini: una testa calva, infatti, è molto più semplice da mantenere pulita. Il collo nudo però, non deriva solo da un’ossessione per l’igiene. Le parti scoperte del corpo di molti avvoltoi, come la testa, per l'appunto, consentono una termoregolazione rapida ed efficiente. Quando fa freddo, un collo scoperto può raggiungere meglio i raggi del sole per scaldarsi. Quando fa caldo, lo stesso collo sarà in grado di scambiare più aria con l’esterno, per raffreddarsi. Questi adattamenti sono molto utili per organismi che abitano gli ambienti più disparati. Dai deserti alle alte montagne; dalle coste del mare, ai gelidi altopiani rocciosi. Molte specie di avvoltoi vivono e si riproducono ovunque, e sono molto adattabili.
Un gruppo di grifoni in alimentazione. Abruzzo 2023 (Gianluca Damiani ©).
Ma perché la loro presenza è di fondamentale importanza all’interno di un ecosistema? Questi grandi rapaci, considerati veri e propri spazzini, esercitano l’importante attività ecologica di riciclo della biomassa delle carcasse, contribuendo alla rimozione dei rifiuti “organici” e alla regolazione delle malattie. La loro assenza all’interno di un ecosistema, inoltre, lascerebbe vacanti delle nicchie trofiche che verrebbero lentamente occupate dai necrofagi occasionali, come i carnivori, che possono opportunisticamente nutrirsi di carcasse. Senza gli avvoltoi in alcuni habitat, si rischia di arrivare a squilibri all’interno della catena alimentare.
Grifoni e corvi imperiali. Sardegna occidentale (Nicola Zara ©).
Una catena di smaltimento funzionante
In Italia vivono quattro specie di avvoltoi: il grifone eurasiatico (Gyps fulvus), l’avvoltoio monaco (Aegypius monachus), il gipeto (Gypaetus barbatus) e il capovaccaio (Neophron percnopterus). Si potrebbe dunque pensare che, tra loro, ci sia una accesa competizione. Nulla di più sbagliato: ognuno occupa una ben precisa nicchia ecologica, svolgendo quindi uno specifico ruolo all’interno dell’ecosistema. Immaginiamo di trovare una carcassa e, armati di binocoli, di poter osservare a distanza gli animali che andranno a cibarsene: i primi a presentarsi saranno sicuramente i corvi e le cornacchie che, con il loro continuo via vai, segnaleranno la presenza della carcassa ad una grande moltitudine di animali, avvoltoi compresi. Tra questi ultimi, i grifoni arriveranno e si alimenteranno delle interiora e delle parti molli, sfruttando gli orifizi naturali dell’animale o altre aperture provocate magari da un grosso carnivoro. Alle parti dure come pelle, muscoli e tendini ci penserà invece il più grosso e possente avvoltoio monaco che, tra gli avvoltoi elencati, è quello dotato di un becco più forte. Quando la carcassa è ormai svuotata e lacerata a dovere, queste due specie, sono solite finire il pasto assieme e, occasionalmente, può unirsi al loro banchetto anche il più timido capovaccaio. Alla fine, quando della carogna non rimangono che ossa e qualche brandello di pelle, ecco che entra in gioco il gipeto, che ripulisce il terreno dalle spoglie dell’animale. Quest’ultimo, infatti, si nutre di ossa, talvolta facendo cadere le più grandi da altezze elevate su rocce piatte, frantumandole, e guadagnandosi il soprannome di “spaccaossa”.
​
L’evoluzione ha portato questi animali a vivere fianco a fianco creando una catena di smaltimento delle carcasse perfettamente funzionante, dove, la competizione interspecifica è ridotta al minimo.
Un capovaccaio "sorveglia" un gregge di pecore. Basilicata (Gianluca Damiani ©).
Il declino degli avvoltoi in Italia: le principali minacce
La scomparsa della pastorizia
La principale causa della drastica riduzione delle popolazioni di avvoltoi in Italia, assieme alla persecuzione da parte dell’uomo, è da attribuire alla scomparsa o alla riduzione delle attività di pascolo brado e allo spopolamento della montagna, già iniziata a partire dalla metà del secolo scorso. Gli avvoltoi sono animali fragili. Essere necrofagi obbligati, come abbiamo già detto, non è facile. In Italia, e in gran parte dell’Europa, con poche eccezioni, gli avvoltoi dipendono quasi interamente dalle attività dell’uomo. La dieta dei grifoni degli Appennini e di Sicilia e Sardegna, ad esempio, è composta per oltre il 90% da animali domestici al pascolo, come vacche, pecore e cavalli. Mentre noi umani viviamo le nostre frenetiche giornate, inconsapevolmente siamo osservati dall’alto da vite che in qualche modo dipendono dalle nostre azioni. Ad eccezione del gipeto che si nutre quasi esclusivamente delle carcasse degli ungulati della fauna alpina, come stambecchi e camosci, le altre specie di avvoltoi sono strettamente legati alla presenza di bestiame allo stato brado. L’abbandono dei pascoli da parte degli allevatori, dunque, ha diminuito drasticamente la principale fonte di cibo di questi grandi rapaci. Ma perché non si pascola più in montagna? I motivi sono molteplici e sono da ricondurre all’età dei pastori che frequentano questi pascoli e, soprattutto, alla mancanza di ricambio generazionale: sono sempre meno i giovani che decidono di intraprendere la dura arte della pastorizia. Per le praterie secondarie, in alcuni casi, questo è un grande problema; senza brucatori e pascolatori si rischia infatti di spezzare l’equilibrio di questi complessi habitat. L’attività di pascolamento degli ungulati, domestici o selvatici, garantisce l’apertura delle praterie che altrimenti verrebbero chiuse da boschi o cespuglieti. In Italia si è giunti dunque all’assenza di attività pastorali in molte aree montane delle Alpi, delle isole e degli Appennini, e tutto ciò ha generato ovviamente una mancanza di risorse per i necrofagi obbligati, come gli avvoltoi.
Un giovane grifone in alimentazione su una carcassa di vacca. Immagine tratta dal libro "Sentieri invisibili" (Gianluca Damiani ©)
Il costo dell'energia
Ma non sono solo le risorse trofiche il problema principale degli avvoltoi in Italia. Anche le linee di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica, per quanto essenziali per umani urbanizzati, hanno un forte impatto negativo sul paesaggio, sugli ecosistemi e sulla fauna. L’elettrocuzione, insieme agli impatti contro le pale degli impianti eolici, rappresenta una grave minaccia e una delle principali cause di morte di numerose specie di uccelli, compresi gli avvoltoi. Le specie maggiormente a rischio sono, ovviamente, i rapaci veleggiatori. Per citare un esempio, tra il 2019 e il 2020, solo in Sardegna, attraverso i monitoraggi dei progetti Life, sono state documentate le morti di ben sette grifoni e cinque aquile del Bonelli. Un dato allarmante, soprattutto se si pensa alla fragilità delle due specie.
Le linee elettriche a media tensione sono responsabili della stragrande maggioranza degli episodi di elettrocuzione. La folgorazione avviene quando un uccello tocca due elementi conduttori (fase-fase) oppure un conduttore ed una struttura di messa a terra (fase-terra). Quest’ultimo caso è quello che avviene più frequentemente e si verifica quando un uccello, posato su un sostegno, tocca accidentalmente uno dei conduttori. Anche le linee elettriche a bassa tensione possono essere responsabili di casi di elettrocuzione dell’avifauna ma la loro diffusione è ormai molto limitata. Ad oggi, fortunatamente, la bassa tensione è ormai trasportata quasi del tutto mediante linee con cavo aereo isolato.
Per le linee elettriche ad alta tensione, il problema principale è da attribuire, invece, all’impatto con i cavi, e in particolare con i fili di guardia, elemento purtroppo essenziale per protegger i conduttori dalla fulminazione. Questi ultimi sono molti sottili e difficili da individuare dagli uccelli, soprattutto in condizioni di scarsa visibilità (es. nuvole, nebbia), e il rischio di collisione è dunque molto elevato. La possibilità di impatto, inoltre, può aumentare considerevolmente in base alla morfologia del territorio: una linea elettrica che passa sopra un bosco, o in una valle stretta, magari nei pressi di un sito di nidificazione, ad esempio, sarà più difficile da individuare ed evitare.
​
Quali soluzioni adottare? I governi, le istituzioni e le compagnie elettriche, lavorando in modo coordinato, devono assicurarsi che l’impatto negativo delle linee elettriche sull’avifauna sia ridotto al minimo, mettendo in sicurezza le infrastrutture già esistenti e pianificando le nuove con le dovute accortezze. Questo richiede ovviamente notevoli investimenti (es. linee interrate, dissuasori), e valutazioni di impatto ambientale.
Gli impianti già esistenti, individuati come pericolosi per l’avifauna, possono essere modificati con l’utilizzo di materiali isolanti in modo da prevenire l’effetto ponte tra i fili elettrici o tra questi e quelli a terra. I materiali isolanti devono essere specifici per il voltaggio e le altre caratteristiche della linea elettrica e devono essere installati con le dovute accortezze. L’isolamento può essere effettuato applicando, in prossimità dei punti di ancoraggio dei conduttori, delle guaine isolanti, oppure utilizzando un nastro auto-agglomerante ricoperto, a sua volta, da un nastro isolante in PVC, nelle altre parti sotto tensione esempio sui conduttori che supportano i cavi.
I casi di folgorazione, inoltre, possono essere mitigati impedendo agli uccelli di posarsi in posizioni pericolose sui tralicci e linee elettriche. Tra i deterrenti più utilizzati abbiamo gli specchi rotanti, disegnati per evitare che gli uccelli si posino vicino ai componenti più pericolosi, e i dissuasori appuntiti che funzionano come una vera e propria barriera fisica, impedendo agli uccelli di posarsi vicino ai cavi elettrici.
Gli impianti eolici rappresentano lo stesso problema: ogni anno, migliaia di uccelli muoiono vittime delle pale eoliche. Solo in Appennino centrale, oltre 40 pale eoliche sono installate a meno di 10 km da una nutrita colonia di grifoni, e ogni anno sono diversi gli individui recuperati morti ai piedi delle pale. Ad oggi, esistono nuovi metodi di prevenzione, che, come per le linee elettriche, riducono fortemente il rischio di collisione e mortalità degli animali.
Rispetto agli impianti installati su montagne e colline, gli impianti offshore, e cioè in mare aperto, hanno sicuramente un impatto minore (seppur comunque negativo) sul volo degli uccelli. Il colore delle pale, inoltre, può ridurre fortemente la probabilità di impatto: una pala nera tra due pale bianche risulta più visibile in caso di scarsa visibilità. E infine, nuovi sistemi radar sono in grado di arrestare e rallentare le pale in caso di avvicinamento di grossi uccelli veleggiatori. Tuttavia, i costi necessari all’installazione di questi nuovi metodi di prevenzione sono ingenti, e di conseguenza, ad oggi, non vengono utilizzati strumenti per ridurre le collisioni, in Italia.
Un grifone e tre gazze iberiche su un traliccio. Immagine tratta dal libro "Sentieri invisibili" (Gianluca Damiani ©).
La piaga del veleno
In Italia, gli avvoltoi, così come altri rapaci e molte specie di mammiferi, sono minacciati anche da avvelenamento e intossicazione. In particolare, il saturnismo, ovvero l’intossicazione da piombo, dovuta all’ingestione di carcasse abbattute dai cacciatori e contaminate con munizioni al piombo, riguarda oltre il 40% delle aquile e avvoltoi di molte aree naturali italiane. Il piombo contenuto nei proiettili viene ingerito dai rapaci che si nutrono degli ungulati uccisi, o delle parti di essi, non recuperate dai cacciatori e lasciate sul luogo di caccia per preservare la qualità delle carni e agevolare il trasporto. L’ingestione del piombo porta gli animali a intossicarsi e a morire di saturnismo acuto, avvelenamento rapido e letale, o cronico, intossicazione sistemica.
Come risolvere il problema? La soluzione più rapida sarebbe, molto banalmente, quella di smettere di utilizzare i proiettili contenenti piombo: le principali aziende produttrici, ormai, producono proiettili monolitici atossici in rame per la caccia agli ungulati e proiettili in acciaio e tungsteno per le munizioni a pallini.
​
Un’altra grande problematica è rappresentata dai bocconi e dalle carcasse avvelenate. In Italia, l’art. 26 del r.d. del 5 giugno 1939 n.1016 legalizzava l’utilizzo dei bocconi avvelenati per il controllo della fauna selvatica nociva. La stessa legge, prevedeva anche che le esche venissero utilizzate seguendo delle regole ben precise: dovevano essere impiegate solo in determinati periodi dell’anno, esclusivamente nelle ore notturne e, soprattutto, dovevano essere segnalate in modo da salvaguardare la salute umana e anche quelle degli animali domestici. I principali bersagli erano le specie dannose per il bestiame come il lupo, ove presente, o la volpe, famigerata ladra di agnelli e galline. L’uso sconsiderato di questa pratica portò anche al declino delle popolazioni dei rapaci necrofagi, vittime innocenti di questi veleni. Nella nostra penisola, delle quattro specie di avvoltoi presenti, l’avvoltoio monaco e il gipeto, si estinsero principalmente per questa causa, le altre due, si ritrovarono sull’orlo dell’estinzione; il grifone, infatti, sopravvisse in Sardegna con una piccola popolazione di un centinaio di individui nella costa nord-occidentale dell’isola mentre il capovaccaio venne relegato in Basilicata, Calabria e Sicilia con meno di dieci coppie nidificanti.
​
Tra i veleni più utilizzati c’è sicuramente la stricnina, un alcaloide vegetale molto tossico contenuto nei semi delle piante appartenenti al genere Strychnos. Questo potente veleno è un antagonista competitivo della glicina, un neurotrasmettitore inibitorio del sistema nervoso centrale, in particolare del midollo spinale. La sua azione impedisce l’interazione della glicina con i suoi recettori specifici, i recettori post-sinaptici per la glicina. La mancata azione inibitoria della glicina porta a contrazioni muscolari prolungate e gravi danni muscolari. La morte sopraggiunge soprattutto per insufficienza respiratoria acuta.
​
Con la legge n. 968 del 27 dicembre del 1977, sui principi generali e sulle disposizioni per la protezione e la tutela della fauna selvatica e la disciplina della caccia, l’impiego di sostanze tossiche e veleni è divenuto illegale su tutto il territorio nazionale. Oggi, tuttavia, a distanza di quasi cinquant’anni dal divieto di utilizzo dei veleni, questi prodotti vengono ancora usati in molti contesti rurali per eradicare i carnivori predatori. Solo in Appennino centrale, nel 2023, una ventina di grifoni sono morti vittime del veleno.
Come risolvere il problema? Quali misure adottare?
​
Come prima cosa, attraverso gli enti locali, regionali e nazionali è importante favorire la conoscenza dell’impatto che queste sostanze hanno nei confronti della fauna. Attraverso campagne di sensibilizzazione si può incoraggiare, ad esempio, la denuncia dei casi di sospetto avvelenamento. Il tutto dovrebbe essere accompagnato da una nuova normativa sul divieto di utilizzo di esche e bocconi avvelenati, e da una rigida regolamentazione sull’acquisto di tali sostanze per altri scopi. Infine, è necessario imparare a convivere con i grandi carnivori, adottando i giusti metodi di prevenzione per limitare i danni e attenuare le predazioni. Se gli allevatori non fossero in conflitto con lupi e orsi, probabilmente i casi di avvelenamento sarebbero drasticamente ridotti, e a guadagnarci sarebbero entrambe le parti: umani e biodiversità.
​
Concludiamo parlando della degradazione degli ecosistemi naturali e del cambiamento climatico che avanza, impattando fortemente ecosistemi e specie, avvoltoi compresi. Il motivo principale della drastica riduzione delle aree incontaminate è dovuto alla continua espansione dell’uomo. Basti pensare che, solo in Sardegna, assieme al bracconaggio e all’utilizzo delle esche avvelenate, la principale causa di estinzione dell’avvoltoio monaco è dovuta proprio al disboscamento che ha profondamente modificato il paesaggio, riducendo l’habitat idoneo alla sua nidificazione. Il cambiamento climatico, inoltre, ha portato inverni sempre più miti e con scarse precipitazioni nevose. Sulle Alpi l’assenza di neve crea spesso squilibri negli habitat montani, così come genera una mancanza di valanghe, che di conseguenza si traduce in meno carcasse di camosci e stambecchi, disponibili a primavera per l’alimentazione degli avvoltoi. In particolare, negli ultimi anni, alcune coppie di gipeto tra Alpi centrali e Occidentali, a causa della mancanza di carcasse ricoperte dalla neve, vanno incontro a una bassa produttività, e ad elevate mortalità dei pulcini al nido, che non vengono alimentati a sufficienza.
Due avvoltoi monaci e un grifone in volo all'alba in una radura. Immagine tratta dal libro "Sentieri invisibili" (Gianluca Damiani ©).
Come stanno oggi gli avvoltoi in Italia?
Negli ultimi decenni grazie a progetti di reintroduzione, restocking, a siti di alimentazione supplementare (carnai) e monitoraggi e sorveglianza da parte di associazioni ed enti pubblici o privati, la condizione degli avvoltoi in Italia è decisamente migliorata.
​
Uno dei più grandi successi è stato sicuramente quello che ha portato al grande ritorno del gipeto, estintosi completamente dalle Alpi agli inizi del XX secolo. Il progetto di reintroduzione nacque nel lontano 1978 e prevedeva, attraverso la tecnica dell’hacking, il rilascio di giovani individui nati in cattività. Questo stratagemma avrebbe così evitato di prelevare giovani nati in natura e indebolire ulteriormente le poche popolazioni selvatiche rimaste in Europa. Il primo rilascio avvenne in Austria nel 1986 e negli anni successivi le liberazioni vennero gradualmente estese a tutto l’arco alpino. Ad oggi, circa 150 gipeti volano sulle alpi.
​
Un altro grandissimo risultato è stato quello ottenuto in Sardegna dal progetto Life “Under Griffon Wings” promosso e avviato nel 2015 e concluso nel 2020. In soli cinque anni, la popolazione dell’isola, unica colonia autoctona di avvoltoio grifone in tutta Italia, è pressoché raddoppiata; i numeri sono eccezionali: da 27 coppie nidificanti e 20 giovani involati nel 2015 si è passati a 51 coppie nidificanti e 37 giovani involati nel 2020. Il successo riproduttivo e la produttività sono aumentati, rispettivamente, del 12,3 % e del 9,7 %.
Come è stato possibile ottenere questi sorprendenti risultati? Innanzitutto, per la prima volta in tutto il territorio italiano, è stata allestita una rete di carnai aziendali che hanno garantito una costante disponibilità di cibo per gli avvoltoi, oltre allo smaltimento delle carcasse con la riduzione del rischio di diffusione di patogeni e malattie. Ulteriori 63 individui sono stati poi liberati nella stessa area, di cui 58 proveniente dalla Spagna e 5 dallo Zoo Artis di Amsterdam, diminuendo di conseguenza anche la probabilità di inincrocio tra individui imparentati.
​
Per fronteggiare la minaccia dei bocconi avvelenati, uno dei principali pericoli per le popolazioni di avvoltoi, sono stati istituiti, per la prima volta in Sardegna e in altre regioni italiane, alcuni nuclei cinofili antiveleno. Di fondamentale importanza sono state anche le numerose campagne di sensibilizzazione su tutto il territorio e la costante sorveglianza dei siti riproduttivi allo scopo di diminuire il disturbo antropico in un periodo delicato come quello riproduttivo. Ad oggi, migliaia di grifoni volano sui cieli italiani, dalle coste alle montagne.
​
Per il capovaccaio invece il viaggio è ancora lungo. Questa specie è infatti l’unica che migra obbligatoriamente tra gli avvoltoi europei, e questo comporta non pochi problemi di conservazione. Nonostante i grandi sforzi compiuti nelle aree di nidificazione tra l’estate e la primavera, non si può garantire una protezione e un controllo degli individui durante la migrazione e lo svernamento in Africa. Per questa specie, oltre all’avvelenamento e alla carenza di risorse, gli abbattimenti illegali e quindi il bracconaggio sono ancora tra le cause principali di mortalità di giovani e adulti. Il progetto Life “Egyptian Vulture”, per la prima volta lo scorso anno, ha visto una femmina nata in cattività e liberata (dopo quasi 20 anni) riprodursi in natura. Ad oggi, in Italia, sono rimaste circa dieci coppie di queste specie, tra Sicilia, Basilicata e Puglia.
Un capovaccaio atterra in una radura, circondato da grifoni, prima del pasto. Immagine tratta dal libro "Sentieri invisibili" (Gianluca Damiani ©).
Conclusioni
Ombre e luci accompagnano la storia di grifoni, gipeti e capovaccai in Italia. Da un lato le scomparse e le estinzioni, dall’altro il ritorno di molte popolazioni e i numerosi progetti di conservazione in atto. In noi c’è ancora la speranza che popolazioni vitali di queste specie possano tornare ad abitare le montagne, le steppe e le foreste del nostro paese, animando il cielo con voli silenziosi e maestosi, ma la strada è ancora lunga. La vita d’avvoltoi si sa, non è facile.
Un gipeto in volo sulle alpi italiane (Gianluca Damiani ©).